La Sigea ha pubblicato gli atti del convegno “Cambiamento climatico. Analisi e prospettive per un adattamento consapevole“. Da pag. 69 è disponibile, per chi ne ha piacere, il mio contributo, che riporto integralmente di seguito.
1 | Introduzione
I tassi di crescita dell’urbanizzazione, nei primi decenni del XXI secolo, hanno raggiunto soglie inedite nella storia dell’umanità. Oltre metà della popolazione mondiale oggi risiede nelle città e si prevede che entro il 2050 questa quota arriverà almeno al 70%.
Nelle città, sempre più sistemi complessi nei quali vanno riconosciuti i dispositivi dei luoghi e dei flussi, sono concentrate le principali attività economiche-finanziarie, ma anche industriali e commerciali: nei luoghi dell’antropizzazione massiccia sono prodotti l’80% del PIL globale e il 70% di tutti i gas serra.
Nelle aree urbane – che occupano appena il 3% della superficie terrestre – si consumano i due terzi del totale dell’energia prodotta, nella stragrande maggioranza dei casi attraverso i combustibili fossili.
Dopo la Conferenza sul Clima di Parigi del 2015 e la definizione degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile promossa dalle Nazioni Unite, dunque, non sorprende che le città, in ragione delle “metamorfosi del mondo” (Beck, 2017) che stiamo conoscendo sotto il profilo sociale ed ambientale, ma anche nella prospettiva che si configurino sempre più come città-stato (Khanna, 2017), siano al centro di ogni dibattito nazionale e internazionale, rappresentando i principali players nella sfida al cambiamento climatico e al mutamento demografico.
Ancor più dopo la 24esima Conferenza sul Clima di Katowice, durante la quale è stato presentato il Rapporto “Global Warming of 1,5°” (realizzato dall’Ipcc, il Gruppo Intergovernativo sul cambiamento climatico organizzato dalle Nazioni Unite) che rivela come restino poco più di 10 anni per non trasformare la Terra in un pianeta invivibile, le aree urbane rischiano di compromettere il proprio futuro, ove continueranno ad essere gestite e interpretate con gli stessi strumenti, cognitivi e normativi, del passato.
È evidente che per evitare di creare condizioni insostenibili per le future generazioni occorra, perciò, una profonda e coraggiosa rivisitazione dei nostri consolidati paradigmi culturali e tecnici, nonché una rielaborazione delle norme vigenti, per vivere armonicamente la relazione con le nuove geografie urbane.
Dovremmo, perciò, uscire quanto prima dall’era geologica che stiamo attraversando – detta “Antropocene” (Crutzen, 2000), per la forte impronta antropologica nei processi di “metabolismo urbano” – ed entrare nel “Neoantropocene” (Carta, 2020) con l’obiettivo dichiarato di contrastare l’accelerazione della “sesta estinzione di massa”.
La comunità internazionale, dunque, dovrebbe stimolare e favorire una strutturale conversione ecologica dei nostri modelli di sviluppo, de-carbonizzandoli, ma anche una radicale mutazione dei nostri stili di vita, sulla base di una incrementale visione biocentrica. In un mondo finito, infatti, non si possono più sprecare le sue risorse naturali in modo infinito.
Tali evidenze, per lo più ignorate, ma note sin da quando nel 1972 il Club di Roma pubblicò il volume “I limiti dello sviluppo” (Meadows et al, 1972), oggi rivelano drammaticamente la fragilità fisica della nostra “casa comune” e la vulnerabilità antropologica di chi la vive. Dal 2009, perciò, accogliendo il modello del Safe Operating Space – uno spazio operativo sicuro per l’umanità – nella comunità scientifica internazionale ci si riferisce ai “limiti planetari”.
In tali “recinti semantici” includiamo nove cruciali questioni ecologiche, dall’impatto globale e tra loro intimamente interconnesse, esacerbate dall’attuale Antropocene: il cambiamento climatico, la perdita della biodiversità, l’acidificazione degli oceani, la riduzione della fascia di ozono nella stratosfera, la modificazione del ciclo biogeochimico dell’azoto e del fosforo, l’utilizzo globale di acqua, i cambiamenti nell’utilizzo del suolo, la diffusione di aerosol atmosferici e l’inquinamento dovuto ai prodotti chimici antropogenici.
Per quattro di queste – il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, la modificazione del ciclo dell’azoto e del fosforo e le modificazioni dell’uso dei suoli – siamo già oltre il margine di sicurezza indicato dai ricercatori che hanno introdotto questo modello di analisi.
2 | I servizi ecosistemici delle foreste
Nel contrasto ai cambiamenti climatici e nel contenimento della perdita di biodiversità, un ruolo essenziale e vitale lo hanno le foreste. Secondo la definizione della Fao, un bosco o una foresta è una superficie di almeno 0,5 ettari, con alberi alti almeno 5 metri che con la loro chioma coprano almeno il 10 per cento del terreno. Secondo il report Global Forest Resource Assessment (GFRA) del 2015 della medesima Agenzia, le foreste del pianeta ricoprono circa 4 miliardi di ettari, pari al 30 per cento delle terre emerse.
Tra tronco, rami e radici, si stima che nel mondo siano immagazzinati oltre 296 miliardi di tonnellate di carbonio: in media, 74 tonnellate di carbonio per ogni ettaro di bosco. Negli ultimi 30 anni, tuttavia, secondo l’anticipazione dell’edizione 2020 dello studio (che sarà pubblicato integralmente entro fine giugno), il mondo ha perso 178 milioni di ettari netti di foreste (un’area grande quanto la Libia).
Dalla stessa preview si evince, inoltre, che il tasso annuo di perdita netto è diminuito dai 7,9 milioni di ettari l’anno del decennio 1990-2000 ai 4,7 milioni l’anno dal 2010 al 2020, con una contestuale crescita, soprattutto in Europa e in Asia, di aree attraversate da notevoli rimboschimenti.
Le foreste, dunque, sono organismi viventi fondamentali per la sopravvivenza del pianeta e di coloro che lo vivono perché oltre a rappresentare lo scrigno fisico della biodiversità e a fungere, attraverso il suolo, da serbatoio di un gas serra climalterante come l’anidride carbonica, garantisce la protezione e la distribuzione dei cosiddetti servizi ecosistemici (Munafò, 2019), nonché la produzione del cibo che alimenta gli esseri viventi ed umani che lo popolano.
3 | La deforestazione in Amazzonia e la genesi della “forestadinanza”
Dal confronto tra l’edizione precedente del GFRA, che copriva il periodo 2010-2015, e l’ultima, che copre il quinquennio 2015-2020, si scopre che il Brasile, l’Indonesia e il Myanmar hanno riportato la maggior perdita di foreste. In particolare, nell’Amazzonia brasiliana, solo gli incendi dello scorso anno avrebbero distrutto un’area grande quasi due volte il Lussemburgo, confermando, quindi, i dati dell’agenzia spaziale INPE secondo la quale la deforestazione nella foresta amazzonica sarebbe cresciuta del 64% tra aprile 2019 e aprile 2020.
La deforestazione, definita dalla Fao come la trasformazione permanente dell’uso del suolo (per esempio un bosco che diventa un terreno agricolo) in ragione della quale viene impedito ad una foresta di ricrescere, non ha una distribuzione universale. Nei Paesi del Sud del mondo che ospitano le foreste della fascia tropicale ed equatoriale, infatti, la deforestazione è aumentata. Nei Paesi del Nord del mondo che ospitano le foreste temperate e boreali, invece, la deforestazione si è ridotta per la crescita delle rinaturalizzazioni boschive.
Tra le cause principali della deforestazione, una delle più distopiche icone del fallimento della globalizzazione neoliberista e turbocapitalista, la necessità di soddisfare i crescenti fabbisogni alimentari della popolazione mondiale che vengono garantiti, sempre più spesso, dall’agroindustria e da allevamenti intensivi che concorrono, però, alla crisi climatica per la quantità di emissioni liberate in atmosfera durante i lori cicli produttivi.
La ricerca “Classifying drivers of global forest loss”, pubblicata su Science nel 2018 e recentemente aggiornata dal World resources institute (Wri) e dal Sustainability consortium per includere le informazioni relative al biennio 2016-2018, documenta non solo che nel periodo considerato si è registrata una perdita di copertura arborea globale equivalente alle dimensioni di un campo da calcio ogni secondo, ma introduce nel dibattito il parametro del forest loss. Questo indicatore, diverso dalla deforestazione, descrive la perdita temporanea dei servizi ecosistemici ove le superfici siano interessate da tagli o incendi, dopo i quali i manti boschivi si rigenerano.
Gli incendi, in particolare, per l’aumento della loro frequenza ed intensità rappresentano una grande minaccia per gli ecosistemi globali, con il rischio di compromettere la biodiversità e di alterare gli equilibri climatici. Tra il 2016 e il 2018, le fiamme hanno bruciato, solo in Nord America, oltre cinque milioni di ettari di foreste.
Più recentemente, in Africa, in Australia ed Amazzonia, prolungate ed inedite siccità hanno con-causato incendi che hanno comportato la distruzione di quasi 25 milioni di ettari, tanto da spingere alcuni ricercatori a battezzare questo periodo emergente e “rovente” della nostra epoca con il termine di “pirocene” (Vacchiano, 2020).
Gli incendi, ma anche le trasformazioni permanenti che hanno coinvolto l’Amazzonia dagli anni Settanta ad oggi, secondo il servizio europeo di monitoraggio dell’atmosfera Copernicus, hanno determinato l’emissione di almeno 230 milioni di tonnellate di CO2.
La tutela dell’Amazzonia, dunque, è fondamentale per non alterare ulteriormente il “nuovo regime climatico” (Latour, 2018) nel quale il pianeta si ritrova, ma anche per assumere la visione dell’”ecologia integrale” (Papa Francesco, 2015) che, attraverso l’esortazione apostolica post-sinodale Querida Amazonia, prevede nella “forestadinanza” una biunivoca ed intima interconnessione tra uomo e natura. Il termine unisce in un “matrimonio” ecologico ed economico l’universalità morale della foresta e la territorialità sociale della cittadinanza, per una relazione che trascende dalle geografie urbane per intrecciare le storiografie umane.
4 | Lo stato di salute delle foreste in Europa e in Italia
La superficie forestale del continente europeo, secondo il report State of Europe’s forests (Soef) del 2015, è di 215 milioni di ettari: il 33 per cento delle terre emerse. Questo patrimonio naturale è in grado di rimuovere annualmente fino a 372 milioni di tonnellate di CO2 dall’atmosfera. Come anticipato nel paragrafo precedente, rispetto alle superfici insistenti su territori tropicali o equatoriali, i boschi, in Europa, sono in aumento: sia in superficie (+27 milioni di ettari dal 1990) sia in biomassa (da 123 metri cubi per ettaro del 1990 a 163 metri cubi per ettaro nel 2015).
L’Unione Europea insieme ad altri 46 Paesi, infatti, ha scelto di adottare l’approccio della gestione sostenibile delle foreste, nell’intento di perseguire il duplice obiettivo della loro conservazione e della loro valorizzazione.
L’uso corresponsabile di questo protocollo, nel riconoscimento dei servizi ecosistemici, sta contribuendo al consolidamento di un’economia agro-forestale che finora ha generato ricavi per quasi 103 miliardi di euro, pari allo 0,8 per cento del Pil europeo. In un continente in cui abbondano i paesaggi peri-urbani o extra-urbani a rischio spopolamento e in cui la natura si sta riprendendo progressivamente i suoi spazi per l’abbandono colturale, la gestione sostenibile permette di utilizzare soltanto una “quota” del legno annualmente prodotto dagli alberi in crescita (in diametro e in altezza) e di aumentare il capitale naturale disponibile.
Nello specifico, a fronte degli attuali 520 milioni di metri cubi tagliati ogni anno nei boschi europei, si ottengono ben 720 milioni di metri cubi, con i 25 miliardi di metri cubi del 1990 diventati 35 dopo quasi 30 anni. ln Italia, invece, il crescente patrimonio forestale, secondo il più recente documento sullo stato delle foreste Italiane – il Rapporto sullo stato delle foreste e del settore forestale in Italia 2017-2018 – è costituito da oltre 9 milioni di ettari di foreste (1.900 metri quadrati di bosco per abitante).
In analogia al panorama continentale, l’aumento della superficie boschiva, in minima parte riconducibile agli interventi di piantumazione realizzati negli ultimi 30 anni, è dovuto principalmente all’abbandono colturale delle tante aree interne e montane distribuite in tutto il Paese da Nord a Sud, soprattutto lungo la dorsale appenninica, che ha permesso alla natura di rioccupare gli habitat originari.
In un Paese in cui oltre il 90% dei territori è attraversato dal rischio idrogeologico (Ispra, 2018) ed in cui oltre 12 milioni di italiani risiedono nei territori marginali sui quali ha deciso di investire il Governo con la Strategia Nazionale delle Aree Interne, l’adozione della strategia della gestione sostenibile delle foreste innesca, ancor più, la resilienza da un lato e la bellezza dall’altro.
Una manutenzione ordinaria e rigorosa dell’ingente e straordinario capitale naturale italico, oltre a ridurre il rischio di incendi e a mitigare gli effetti di fenomeni come frane o alluvioni, può innervare i tessuti territoriali di una rigenerazione sociale e culturale che può accrescerne l’attrattività e la generatività.
Un bosco in buona salute, inoltre, è un prezioso alleato nella lotta ai cambiamenti climatici, con il legno e il suolo soggetti naturali abilitanti di bioeconomie a scala urbana. Pur con una superficie agro-forestale in aumento e a fronte di una media europea del 60 per cento di utilizzo della stessa, l’Italia ne impiega appena il 30 per cento. Lo strumento per trasformare questa attuale criticità in una nuova opportunità è la bioeconomia.
5 | Dall’economia circolare alla bioeconomia circolare
La bioeconomia, individuata sin dal 2015 dall’Unione Europea come una delle modalità attraverso cui può essere gestito l’impegno intergenerazionale e socio-ambientale dell’adattamento ai cambiamenti climatici delle nostre città, ma anche della conversione ecologica dei nostri attuali modelli di produzione e consumo di beni e servizi ancora incardinati nel paradigma dell’economia lineare alimentata dai combustibili fossili, può rappresentare per il nostro Paese la chiave per aprire le porte del futuro.
La bioeconomia, secondo la definizione data dall’Unione Europea, è, dunque, “l’economia che impiega le risorse biologiche, provenienti dalla terra e dal mare, come input per la produzione energetica, industriale, alimentare e mangimistica”.
Il settore forestale e il settore agricolo, perciò, assumono un’importanza strategica per l’affermazione della bioeconomia poiché, come abbiamo visto, le foreste – se protette e valorizzate secondo l’approccio integrato della gestione sostenibile – garantiscono tutte le risorse naturali e rinnovabili indispensabili per il benessere dell’umanità e delle comunità che ambiscono a vivere in sintonia con la natura e nel rispetto dei suoi cicli rigenerativi.
Un materiale naturale e rinnovabile come il legno, perciò, sempre più potrà sostituire, tra tradizione ed innovazione, la plastica e tutti i suoi derivati di origine fossile per costruire un’economia del benessere. Analogamente, una straordinaria opportunità per il perseguimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, nonché al conseguimento degli indicatori previsti per misurare la qualità dei modelli di economia circolare sperimentati in ogni Stato membro, potrebbe essere fornita dalle biomasse e dalle frazioni organiche che se correttamente trattate diventerebbero fertilizzante o biometano.
Una bioeconomia sostenibile, valorizzando le risorse naturali e rinnovabili di cui è ricco il nostro Paese, quindi, lo spingerebbe a ridurre le importazioni di materie prime dall’estero, nonché a limitare drasticamente le emissioni di gas serra in atmosfera, in coerenza con gli intenti dell’Accordo di Parigi. Da quanto premesso, si intuisce che anche un altro bene comune ecologico globale, non sempre riconosciuto come tale nel nostro Paese, potrebbe conoscere una nuova primavera: il suolo.
Si stima che il 33% dei suoli, a livello mondiale, sia degradato e che un’area di 348 chilometri quadrati venga annualmente impermeabilizzata in Europa. Per questo motivo, con la strategia comunitaria della land degradation neutrality, il Parlamento europeo ha stabilito che entro il 2050 debba essere azzerato il degrado di questa risorsa naturale preziosa, fondamentale per i suoi servizi ecosistemici ed essenziale nell’adattamento ai cambiamenti climatici, oltre che nella produzione del cibo che ci alimenta. Tra le forme più pervasive di degrado, come rilevato dal Jrc, l’erosione che riduce la fertilità, diminuisce la produttività, impoverisce gli habitat e mortifica la biodiversità.
Da uno studio recente del medesimo organo comunitario emerge come il nostro Paese abbia l’indice di perdita media annua più elevato d’Europa, pari a 8,46 t/ha, contro una media UE di 2,46 t/ha. Tra le forme di degrado dei suoli, tuttavia, quella più impattante, soprattutto nel nostro Paese, è il consumo di suolo (Munafò, 2019), ossia la trasformazione pressoché irreversibile da naturale ad artificiale di un’unità di terra, a causa dell’impermeabilizzazione dovuta alla realizzazione di unità residenziali, commerciali o industriali, ma anche di infrastrutture viarie, che incidono fortemente sulla qualità dei paesaggi.
Per molti ricercatori e imprenditori, amministratori ed innovatori, integrare la bioeconomia con l’economia circolare rappresenta la sfida del prossimo futuro. Una bioeconomia circolare veramente efficace si riconoscerebbe dalla sua capacità generativa di estendere la fruibilità e la durata dei materiali naturali disponibili, anche attraverso le nuove tecnologie digitali ed eco-compatibili, e aiuterebbe a consegnare un pianeta migliore alle prossime generazioni, tenendo insieme giustizia sociale e giustizia ambientale.